Bum bum
La testa bassa, incassata tra le spalle, guardo l’asfalto scorrere tra le mie gambe.
Sento il cuore in gola.
Bum bum
Un’occhiata all’orologio per vedere a quanto pulsa, lo so già che sono al limite e di più non dovrei spingere.
Centosettantasei
Ma ho davanti un’omino che pedala come un ossesso, in piedi sui pedali.
Mi ha passato come se nulla fosse, sembrava un treno.
Di lasciarlo andare non se ne parla proprio.
Tanto più che gli sto succhiando la ruota, che è lui che mi apre l’aria e per me stargli dietro dovrebbe essere una passeggiata di salute.
Trentotto.
Quaranta.
Cazzo come fa a fare i quaranta, vede la mia ombra che lo insegue sull’asfalto e mi vuole dar la paga.
Il bastardo.
Bum bum
Centottantatre.
Quaranta all’ora, va come un Ciao.
Mister Ciao, fra un po’ mi sa che sarò io a dirti ciao.
Cambia rapporto, allunga, io stringo i denti e gli sto dietro.
Lui sempre in piedi sui pedali, sembra una macchina.
Una raffica di vento mi sposta leggermente.
L’aria sa di erba appena tagliata.
In mezzo c’è il naviglio che scorre pigro e le macchine dall’altro lato sembrano del tutto silenziose.
Sento solo il mio cuore.
Bum bum.
Resisti cazzo, non mollare.
Almeno fino alla cascina delle mucche.
Se arrivi fino a li tutto si risolve, tutto passa, tutto ritorna ad essere come era prima.
Bum bum.
Beep.
L’orologio ha fatto beep, ho superato la soglia di sicurezza.
Fermati scemo non hai più vent’anni.
‘Ste cose falle fare ai coglioni che non sanno cos’è un infarto, non sanno come capita, non conoscono i danni irreparabili e la mezza vita che si è costretti poi a far scorrere.
Beep
Centottantasette
Lo sapevo, se fa beep è oltre i 185.
Mi bruciano le gambe, mi pulsano le tempie e alzo la testa un’ultima volta, per vederlo sempre in piedi sui pedali.
E’ orribile, tutto gambe e niente busto, lo odio per come mi sta stracciando.
Sarà venti centimetri più basso, arriva a stento agli uno e settanta, peserà venti chili di meno.
Beep.
E’ per quello che mi va via e poi lui non ha che la bici, lui non è come me.
Basta non ce la faccio più.
Io mollo, ma solo perché non sono come lui, io mollo perché sono meglio di lui.
Un metro due metri tre.
Il cono d’aria rarefatta nel quale lo seguivo diventa turbolenza.
Da tre a venti ci mette un momento e poi è finita.
Sbuffo e rallento.
Non so perché debba essere così importante
E’ forse perché in questo periodo girano tutte storte.
Uno si attacca alle cazzate.
Qualsiasi piccolo episodio diventa un segno di svolta.
Se ce la faccio da oggi in poi cambia tutto.
L’orologio ha smesso di far beep
Centocinquantasette, non lo sento più battermi in gola.
Ci credo, sto andando a ventisei, tra un po’ mi supera pure un bambino in triciclo.
Mi bevo l’aria.
La caccio dentro come se potesse fare pulizia, portare via tutto lo smog che si respira a Milano. Ultimamente poi il traffico è un massacro.
Bella pensata quella dell’ecopass.
Tutto il centro senza auto inquinanti, peccato che tutto attorno ci sia un macello quadruplo.
E se tutto attorno il traffico aumenta, secondo te al centro l’aria diventa più respirabile?
Passo la cascina delle mucche.
Il loro odore mi fa tornare indietro a quattro anni, mi succede ogni volta.
La mia nonna mi prendeva per mano e mi portava nella stalla del Celso a vedere la mucca.
Mai capito se Celso fosse il suo vero nome, di Celso non ne ho mai più incontrato uno.
Era un tipo alto e sicco, che si muoveva in modo allampanato.
Aveva pure un cavallo che attaccava alla carrozza la domenica e si andava a far la passeggiata.
Poi a casa mi faceva pane e Mutella.
Mai capito perché la chiamasse così, la enne era scritta grossa sul barattolo.
Impossibile sbagliarsi.
Ma forse lo faceva apposta.
Perché gli piaceva chiamarla così.
Mai osato chiederglielo.
L’aria fresca che mi passa tra i capelli asciuga il mio sudore.
Sono quasi arrivato al punto in cui mi fermo.
Alla fine della strada, appena dopo il cimitero, dove c’è il ponte che ti porta in centro o se ci passi sotto continui sul Naviglio.
In centro si fa per dire perché al pensiero del centro di Abbiategrasso mi viene un po’ da ridere.
Abbiategrasso downtown.
Ma chi l’avrà dato un nome simile a una città?
Sembra un’ode a Mac Donald’s.
Gli abitanti me li immagino tutti ciccioni, che fanno le vasche per la via principale la domenica pomeriggio, mangiandosi giganteschi hamburghers e tutti con la faccia di Poldo Sbaffini, il mio eroe di Braccio di Ferro.
Masticando si fanno cenni di saluto, ma non si parlano, sono troppo intenti a scrofanarsi i loro concentrati di calorie.
Io mi fermo sempre li.
Sul ponte prima.
Sono diciannove chilometri e mezzo.
Il punto in cui si torna indietro.
Fermarsi un po’ prima dei venti lo trovo carino.
Sapere di tornare non potendo dire: “Anche oggi mi sono sparato quaranta chilometri in bici”.
Ho sempre avuto il gusto del quasi.
Del “quasi quaranta chilometri”.
Del “quasi riuscito”.
Del “quasi finito”
Del “quasi baciata”.
Nella rinuncia c’è molta più poesia che nell’ottenimento di quanto si desidera.
Naturalmente solo a volte.
Quando non è così importante mi capita sempre di avere questa pulsione.
Centotrenta.
Non fa più bum bum.
Ricomincio a spingere.
Cercando di diluire nello sforzo tutta l’amarezza di questi ultimi mesi.
Mi sono sempre considerato una persona fortunata.
Mi è sempre girato tutto bene.
Poi all’improvviso è arrivato il cigno nero.
Gli americani lo chiamano così, “the black swan”, l’evento che nessuno si aspetta.
La notte di San Valentino.
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