Ci sono volte in cui si prova invidia.
Si può invidiare la bellezza, il fascino, la ricchezza, l'intelligenza....
Ad essere sincero non mi capita spesso, ma dopo aver letto questo racconto ho provato invidia per la straordinaria intuizione di un piccolo uomo dai capelli grigi e dalla grande mente.
Buona lettura!
L'ultima domanda venne posta per la prima volta, quasi per scherzo il 21 maggio 2061, in un momento in cui l'umanità cominciava a intravedere finalmente un po' di luce.
La domanda era il risultato di una scommessa di cinque dollari, nata durante una bevuta, ed ecco come andò la cosa.
Alexander Adell e Bertram Lupov erano due dei fedeli assistenti addetti a Multivac. Sapevano - così come era dato saperlo a due esseri umani - che cosa c'era dietro la fredda, lampeggiante, ticchettante faccia - chilometri e chilometri di faccia - del gigantesco calcolatore. Avevano se non altro una nozione vaga del piano generale di relais e di circuiti che da tempo aveva superato il limite oltre il quale una singola mente umana non poteva assolutamente conservare una chiara visione d'insieme.
Multivac si auto-regolava e si auto-correggeva. Doveva essere così, perché nessun essere umano poteva regolarlo o correggerlo con sufficiente rapidità o in modo adeguato. Così, Adell e Lupov badavano al mostruoso gigante solo in modo leggero e superficiale, e al tempo stesso come meglio non era possibile, trattandosi di uomini. Vi inserivano dati, adattavano le domande alle necessità del calcolatore e traducevano le risposte che questo forniva. Senza dubbio tanto loro due che gli altri loro colleghi avevano pieno diritto di bearsi della gloria che spettava a Multivac.
Per decenni, Multivac aveva dato una mano, per così dire, a progettare le navi e a calcolare le traiettorie che mettevano in grado gli uomini di arrivare sulla Luna, su Marte e su Venere ma, al di là di quelle mete, le scarse risorse della Terra non consentivano alle navi di affrontare altri viaggi più impegnativi. Troppa energia era richiesta per i lunghi percorsi. La Terra sfruttava le sue riserve di carbone e di uranio con efficienza crescente, ma in sé quelle riserve erano limitate.
Lentamente, tuttavia, Multivac aveva imparato quanto bastava per rispondere in modo più fondamentale a domande più profonde, il 14 maggio 2061, quella che era stata una teoria, era diventata un fatto concreto.
L'energia del sole veniva ora immagazzinata, trasformata e utilizzata direttamente, su scala planetaria. La Terra intera poteva spegnere i suoi fuochi alimentati a carbone e le sue centrali nucleari per far scattare l'interruttore che connetteva il tutto a una piccola stazione, di un chilometro e mezzo di diametro, in orbita attorno alla Terra a una distanza che era la metà di quella della Luna. Tutto sulla Terra, funzionava ora grazie agli invisibili raggi dell'energia solare.
Sette giorni non erano bastati a offuscare la gloria di quell'avvenimento, ma Adell e Lupov riuscirono finalmente a sottrarsi alle celebrazioni pubbliche per rifugiarsi in santa pace dove nessuno avrebbe pensato di cercarli, ossia nelle deserte sale sotterranee dove s'intravedevano alcune parti del possente corpo sepolto di Multivac. Si erano portati una bottiglia, e la loro unica preoccupazione, al momento, era di rilassarsi l'uno in compagnia dell'altro e con l'aiuto di un abbondante beveraggio.
-- È incredibile, se ci pensi bene -- disse Adell. La larga faccia era segnata dalla stanchezza, ed egli agitava lentamente la bibita con una cannuccia di vetro, osservando i cubetti di ghiaccio nei loro stentati spostamenti. --Tutta l'energia che potremmo mai desiderare di usare, completamente gratuita. Energia a sufficienza, qualora decidessimo di farne spreco, per fondere tutta la Terra in un unico gocciolone di ferro liquido e impuro, senza minimamente dar fondo per questo, alla riserva totale. Tutta l'energia che potremo mai usare, insomma, per sempre, per sempre e ancora per sempre.
Lupov piegò la testa da un lato. Era un vezzo, che aveva, quando si metteva in mente di fare il bastian contrario; e ne aveva una gran voglia, in quel momento, forse perché era toccato a lui procurare il ghiaccio e i bicchieri. -- Per sempre poi no -- disse.
-- Andiamo, Bert, praticamente per sempre, sì. Fino a che il sole non sarà scarico, per lo meno.
-- Be', non per sempre, allora.
-- Ma si, come vuoi tu. Per miliardi e miliardi di anni. Venti miliardi, facciamo. Soddisfatto, sì?
Lupov si passò le dita tra i capelli sempre più radi, come per assicurarsi che gliene rimanesse ancora qualcuno, e sorseggiò pian pianino la sua bibita. -- Venti miliardi di anni non è per sempre.
-- Be', durerà almeno finché ci siamo noi, no?
-- Se è per questo, sarebbero durati anche il carbone e l'uranio.
-- D'accordo, ma ora possiamo allacciare ogni singola nave alla Stazione Solare, e farla andare e tornare da Plutone un milione di volte senza doverci più preoccupare del combustibile. Prova a farlo con il carbone e l'uranio, se sei capace! Del resto, se non mi credi, domandalo a Multivac.
-- Non ho bisogno di domandarlo a Multivac. Lo so.
-- Allora piantala di minimizzare quello che Multivac ha fatto per noi -- disse Adell, accalorandosi, è stato bravissimo!
-- Chi dice di no? lo dico solo che un sole non dura in eterno. Basta, non ho detto altro! Per venti miliardi di anni siamo tranquilli; e poi? -- Lupov puntò contro l'altro l'indice che tremava leggermente. -- E non venire a dirmi che potremo attaccarci a un altro sole.
Per un po', rimasero in silenzio. Solo di tanto in tanto Adell si portava il bicchiere alle labbra, e Lupov un po' alla volta aveva chiuso gli occhi. Riposavano, tutti e due.
Poi, Lupov riapri gli occhi di scatto. -- Stai pensando che, quando il nostro sarà esaurito, ci attaccheremo a un altro sole, vero?
-- Non sto pensando affatto.
-- Sì, invece. Tu manchi di senso logico, ecco qual è il tuo difetto. Sei come quel tale della storiella, che essendo stato sorpreso da un acquazzone era corso fino a un boschetto e si era rifugiato sotto un albero. Era tranquillo, lui, perché pensava che, una volta che si fosse bagnato ben bene quell'albero lì, non doveva fare altro che spostarsi sotto un altro.
-- Ho capito, sì -- disse Adell. -- È inutile che gridi. Una volta spento il nostro sole, anche le altre stelle si saranno esaurite, nel frattempo.
-- Puoi star sicuro che si saranno esaurite -- borbottò Lupov. -- Tutto ha avuto origine in una prima esplosione cosmica, qualsiasi cosa fosse, e tutto avrà una fine quando le stelle si saranno scaricate ben bene. Alcune si spegneranno più in fretta di altre. Le stelle giganti dureranno al massimo cento milioni di anni. Il sole durerà venti miliardi di anni, mettiamo, e le nane potranno durare cento miliardi di anni, per quel che servono. Ma lascia che passi un trilione d'anni, tutto sarà sprofondato nel buio. L'entropia deve per forza raggiungere un massimo, tutto qui.
-- So tutto dell'entropia -- disse Adell, con un tono di dignità offesa.
-- Davvero? Non si direbbe.
-- Ne so tanto quanto te.
-- Allora sai anche che tutto finirà per decadere, prima o poi.
-- D'accordo. Chi ha detto il contrario?
--Tu, l'hai detto, povero mammalucco. Hai detto che avevamo tutta l'energia di cui abbiamo bisogno, per sempre. Hai detto proprio "per sempre".
Era Adell, ora, in vena di contraddire. -- Può anche darsi che, un giorno o l'altro, si riesca a ricostituire tutto.
-- Mai!
--Perché no? Un giorno, non so quando.
--Domandalo a Multivac.
-- Questo poi no.
-- Domandalo a Multivac, ti dico! Facciamo una scommessa: mi gioco cinque dollari che ti dirà di no anche lui.
Adell era abbastanza brillo per provare, abbastanza in sé per poter comporre i simboli e le operazioni necessarie per una domanda che, in parole, sarebbe sonata pressappoco così: Potrà un giorno il genere umano, senza dispendio di energie essere in grado di riportare il sole alla sua piena giovinezza perfino dopo che sarà morto di vecchiaia?
O magari, in maniera più semplice, si sarebbe potuta formularla così: Com'è possibile diminuire in modo massiccio il quantitativo di entropia dell'universo?
Multivac si fece immobile e muto. I lenti lampi di luce cessarono lontani rumori del ticchettio dei relais si fermarono.
Poi, proprio quando i due tecnici terrorizzati sentivano di non farcela più a trattenere il respiro, vi fu un improvviso ritorno alla vita della telescrivente collegata con quella parte di Multivac. Le parole erano cinque in tutto: DATI INSUFFICIENTI PER RISPOSTA SIGNIFICATIVA.
-- Niente scommessa -- bisbigliò Lupov. E insieme si allontanarono in fretta dal sotterraneo.
Il mattino dopo i due amici, afflitti dal mal di testa e dalla bocca impastata, avevano già dimenticato l'incidente.
Jerrodd, Jerrodine e Jerrodette I e II osservavano sul quadro visivo i cambiamenti dello stellato mentre il passaggio attraverso l'iperspazio veniva completato in un lasso di non tempo. Tutto a un tratto, il pulviscolo di stelle cedette il posto alla predominanza di una singola e vivida biglia, proprio al centro del quadro.
-- Quello è X-23 disse Jerrodd, senza un attimo di esitazione. Intrecciò con forza le mani scarne dietro di sé, tanto che le nocche gli si sbiancarono.
Le piccole Jerrodette, due sorelline, avevano fatto per la prima volta in vita loro l'esperienza del passaggio nell'iperspazio ed erano un po' imbarazzate a causa della momentanea sensazione di uscire da se stesse. Soffocavano le risate dietro le manine e si rincorrevano a vicenda attorno alla mamma, facendo un baccano indiavolato.
-- Siamo arrivati su X-23 -- gridavano -- siamo arrivati su X-23... siamo...
-- Buone, bambine -- le zittì Jerrodine, in tono severo. -- Sei sicuro, Jerrodd?
-- Come si fa a non esserne sicuri? -- ribatté Jerrodd, levando lo sguardo all'uniforme sporgenza metallica proprio al di sotto del soffitto. La sporgenza correva lungo tutta la cabina scomparendo poi attraverso le paratie alle due estremità. Era lunga come l'intera astronave.
Jerrodd non sapeva quasi niente a proposito di quel grosso tubo metallico, salvo che veniva chiamato Microvac; che, volendo, era possibile rivolgergli delle domande; che, oltre a rispondere a eventuali domande, aveva il compito di guidare la nave fino a preordinata destinazione. Inoltre, Microvac provvedeva a rifornirsi di energia dalle varie Stazioni Erogatrici Sub-Galattiche e, infine, risolveva equazioni per i balzi iperspaziali.
Jerrodd e la sua famiglia non dovevano fare altro che aspettare comodamente alloggiati nelle cabine dell'astronave.
Qualcuno, una volta, aveva detto a Jerrodd che "ac", alla fine, Microvac, in inglese antico stava per "calcolatore analogico", ma era ormai in procinto di dimenticare perfino questo.
Jerrodine aveva gli occhi lucidi, nel fissare il quadro visivo. -- Non so cosa farci. Mi sento molto scossa al pensiero d'avere lasciato la Terra.
-- Ma perché, benedetta donna? -- si meravigliò Jerrodd. -- Non avevamo niente, laggiù, mentre su X-23 avremo praticamente tutto. Non ti sentirai sola, perché non sarai una pioniera: sul pianeta c'è già un milione e più di persone. Santo cielo, se pensi che i nostri pronipoti dovranno cercarsi nuovi mondi, perché X-23 sarà già sovraffollato! -- Poi, dopo una pausa di riflessione: -- Credi a me, è una vera fortuna che i calcolatori abbiano risolto il problema dei viaggi interstellari, considerato il modo come si moltiplica la razza.
-- Lo so, lo so -- convenne Jerrodine, avvilita.
-- Il nostro Microvac -- saltò su Jerrodette I -- è il Microvac migliore del mondo.
-- Certo, lo penso anch'io -- disse Jerrodd, arruffandole i riccioli.
In effetti era bello poter avere un Microvac tutto per sé, e Jerrodd era contento di appartenere alla sua generazione. Al tempo in cui era giovane suo padre, gli unici calcolatori esistenti erano dei tremendi macchinoni che occupavano centinaia di chilometri quadri di terra. Ce n'era non più di uno per pianeta. AC Planetari, si chiamavano. Per migliaia d'anni, non avevano fatto che aumentare di dimensioni finché, tutt'a un tratto, era subentrato il raffinamento tecnico. Al posto dei transistori, erano venute le valvole molecolari, per cui perfino il più grande degli AC Planetari poteva trovar posto in uno spazio pari alla metà del volume di una astronave.
Jerrodd provava un senso di esaltazione, cosa che sempre gli accadeva quando si ricordava che il suo Microvac personale era di gran lunga più complicato dell'antico e primitivo Multivac che per primo aveva domato il Sole, nonché quasi altrettanto complesso dell'AC Planetario Terrestre (il più grande di tutti) che per primo aveva risolto il problema del viaggio interstellare e reso possibile spostarsi da una stella all'altra.
--Tante stelle, altrettanti pianeti -- sospirò Jerrodine, immersa nelle proprie meditazioni. -- Le famiglie non faranno che trasferirsi su nuovi pianeti, per sempre, proprio come stiamo per fare noi ora.
-- Per sempre no -- corresse Jerrodd, con un sorriso. -- Un giorno o l'altro, tutto si fermerà, ma prima che accada dovranno passare miliardi di anni. Molti miliardi. Perfino le stelle si esauriscono, come ben sai. L'entropia deve per forza aumentare.
-- Che cos'è l'entropia, papà? -- strillò Jerrodette II.
-- L'entropia, cara, è una.., un termine, ecco. Significa il quantitativo di decadimento dell'universo. Tutto si... si scarica, diciamo così. Come il tuo piccolo robot walkie-talkie, ricordi?
-- E non si può inserire una nuova unità-di-energia, come facevamo per il mio robot?
-- Le stelle sono le unità di energia, mia cara. Una volta esaurite quelle, non ne rimangono più.
All'istante, Jerrodette I scoppiò in un pianto disperato. - No, no, papà, non voglio! Non lasciare che le stelle si scarichino, papà!
-- Hai visto cos'hai fatto, ora? -- bisbigliò Jerrodine, esasperata.
-- Come potevo immaginare che si sarebbero spaventate? -- bisbigliò Jerrodd di rimando.
-- Domandalo al Microvac -- singhiozzò Jerrodette I. -- Domandagli come si fa per riaccendere le stelle.
-- Coraggio, domandaglielo-- disse Jerrodine. -- Chissà che non serva a calmarle. -- (Anche Jerrodette II aveva cominciato a piagnucolare.)
-- Jerrodd si rassegnò. -- Buone, su, bambine. Ora sentiamo da Microvac, eh? Vedrete che ce lo dirà, state tranquille.
Rivolse la domanda al Microvac, affrettandosi ad aggiungere: Rispondi per iscritto.
Qualche istante dopo, faceva sparire nel palmo la sottile striscia cellufilm e diceva allegramente: -- Ecco qua, Microvac dice di non preoccuparsi, che quando verrà il momento penserà lui a tutto.
-- E adesso a letto, bambine -- intervenne Jerrodine. -- Tra poco saremo nella nostra nuova casa.
Prima di distruggere la strisciolina di cellufilm, Jerrodd lesse ancora una volta le parole: DATI INSUFFICIENTI PER RISPOSTA SIGNIFICATIVA.
Con un'alzata di spalle, riportò l'attenzione sul quadro visivo. X-23 era vicinissimo, ormai.
VJ-23X di Lameth fissò le nere profondità della mappa tridimensionale su scala ridotta della Galassia e domandò: -- Che dici, siamo ridicoli a preoccuparci tanto della questione?
MQ-17J di Nicron scosse la testa, -- Non direi. Si sa che, al presente tasso di espansione, nel giro di cinque anni la Galassia si popolerà completamente.
Sembravano entrambi sul principio della ventina, erano tutt'e due alti e perfettamente formati.
-- D'altra parte -- osservò VJ-23X -- non so se sia il caso di presentare un rapporto pessimistico al Consiglio Galattico.
-- lo non esiterei, invece. E' il solo rapporto possibile, secondo me. Li scuoterà un po', si spera. Bisogna scuoterli, caro mio.
VJ-23X sospirò. -- Lo spazio è infinito. Cento miliardi di Galassie sono là che aspettano d'essere popolare. Ma che dico, di più!
-- Cento miliardi non sono affatto l'infinito, e per di più lo sono sempre di meno, a mano a mano che il tempo passa. Ma rifletti! Ventimila anni fa, l'umanità risolse il problema di come utilizzare l'energia stellare e, pochi secoli più tardi, il viaggio interstellare divenne una cosa possibile. Ebbene, l'umanità che aveva impiegato un milione di anni a saturare un unico, piccola mondo, da quel momento ne ha impiegati soltanto quindicimila per riempire il resto del Galassia. Ora, ogni dieci anni la popolazione raddoppia...
-- Possiamo ringraziare l'immortalità per questo -- lo interruppe VJ-23X.
-- Siamo d'accordo. Ma l'immortalità esiste, e non ci resta che tenerne conto. Intendiamoci, il suo lato negativo ce l'ha, non lo metto in dubbio. L'AC Galattico avrà risolto molti problemi, non discuto ma nel risolvere quello per prevenire la vecchiaia e la morte, ha mandato a quel paese tante altre sue soluzioni.
-- E d'altra parte, sii sincero: saresti disposto ad abbandonare la vita?
-- Neanche per idea -- scattò MQ-17J, subito moderandosi e aggiungendo: -- Non ancora. Sono ancora giovane, alla fin fine. Tu quanti anni hai?
-- Duecentoventitré. E tu?
-- Sono ancora sotto i duecento, io... Ma, per tornare al discorso di prima, la popolazione, dicevo, raddoppia ogni dieci anni. Una volta saturata questa Galassia, nel giro di dieci anni ne avremo popolata un'altra. Altri dieci anni, e ne avremo riempite altre due. Altro decennio, e ne avremo saturate altre quattro. Tempo un centinaio d'anni, e di Galassie ne avremo riempite un migliaio. In mille anni, un milione di Galassie. In diecimila anni, l'Intero Universo conosciuto. E poi?
-- Senza contare -- osservò VJ-23X -- che esiste un problema tutt'altro che secondario, ossia quello del trasporto. Mi domando quante unità di energia solare ci vorranno per trasferire Galassie di individui da una Galassia all'altra.
-- Osservazione quanto mai pertinente! Già oggi, l'umanità consuma qualcosa come due unità di energia solare all'anno.
-- Di cui la maggior parte va sprecata, in fin dei conti, la nostra Galassia da sola riversa un migliaio di unità d'energia solare all'anno, di cui noi ne usiamo soltanto due.
--D'accordo, ma anche con un'efficienza del cento per cento non faremmo che rinviare la fine. Le nostre richieste di energia aumentano, in proporzione geometrica, anche più rapidamente della nostra popolazione. Esauriremo l'energia solare prima ancora d'avere esaurito le Galassie. Hai fatto un'osservazione giusta. Si, giustissima.
-- Ci toccherà costruire nuove stelle, ricavandole dal gas interstellare.
-- O dal calore dissipato? -- domandò con sarcasmo MO-17J.
-- Chissà che non esista un modo di invertire l'entropia? Dovremmo proprio domandarlo all'AC Galattico.
VJ-23X non diceva sul serio, ma MQ-17J estrasse di tasca il suo Contatto-AC e lo posò sul tavolo, davanti a sé.
-- Ho una mezza voglia di farlo -- disse. -- È' un argomento che la razza umana dovrà pure affrontare, un giorno o l'altro.
Fissava cupamente il suo piccolo Contatto-AC. In sé, l'apparecchio era un piccolo cubo insignificante, ma era collegato, attraverso l'iperspazio, con il grande AC Galattico che serviva tutto il genere umano. Tenuto conto dell'iperspazio, l'apparecchietto era parte integrale dell'AC Galattico.
MQ-17J si soffermò a domandarsi se, nel corso della sua vita immortale, sarebbe riuscito a vedere da vicino l'AC Galattico. L'AC stava su un piccolo pianeta tutto suo, ragnatela di linee di forza che abbracciava la materia entro la quale ondate di sub-mesoni prendevano il posto delle rozze valvole molecolari di un tempo. Tuttavia, nonostante i suoi dispositivi sub-eterici, era risaputo che l'AC Galattico si estendeva per ben trecento metri.
-- Sarà mai possibile invertire l'entropia? -- domandò inaspettatamente MQ-17J al suo Contatto-AC.
VJ-23X trasalì e si affrettò a precisare: -- Ma, dì un po', non pensavo certo che glielo domandassi davvero, sai?
-- Perché no?
-- Perché sappiamo benissimo che non è possibile invertire l'entropia. Non si può ritrasformare fumo e cenere in un albero.
-- Avete alberi sul vostro pianeta? domandò MQ-I7J.
Il suono dell'AC Galattico li zittì all'improvviso, facendoli trasalire. La voce del possente calcolatore usciva bella e un po' fievole dal piccolo Contatto-AC posato sulla scrivania. DATI INSUFFICIENTI PER RISPOSTA SIGNIFICATIVA, disse.
-- Hai sentito? -- mormorò VJ-23X.
Dopo di che, i due uomini ritornarono alla questione del rapporto da presentare al Consiglio Galattico.
La mente di Zee Prime misurò a spanne la nuova Galassia, mostrando soltanto un vago interesse per le innumerevoli stelle che la incipriavano. Sicuramente non l'aveva mai vista, quella. Sarebbe mai riuscito a vederle tutte? Numerose com'erano, ciascuna col suo carico di umanità... Ma un carico che era più che altro un peso morto. Sempre di più, la vera essenza dell'uomo andava ricercata fuori, nello spazio.
Menti, non corpi! I corpi immortali rimanevano laggiù sui pianeti come sospesi al di sopra del tempo. Talvolta si ridestavano a un'attività di vita materiale, ma il fenomeno si faceva sempre più raro. Pochi individui nuovi vedevano la luce e andavano ad aumentare le imponenti masse di moltitudini, ma che importanza aveva? Non c'era più spazio nell'Universo, ormai, per nuovi individui.
Zee Prime si scosse dalle sue meditazioni nell'imbattersi nelle volute lievi di un'altra mente.
-- Sono Zee Prime --- disse Zee Prime. -- E tu?
-- Mi chiamo Dee Sub Wun. La tua Galassia?
-- La chiamiamo soltanto Galassia. E tu?
-- Anche noi la chiamiamo soltanto così. Tutti chiamano così la loro Galassia. Che male c'è?
-- Ah, figurati! Tra l'altro, sono tutte uguali.
-- Proprio tutte, no. Su una particolare Galassia, la razza umana, deve avere avuto origine, e questo la rende diversa.
-- Su quale? -- domandò Zee Prime.
-- Non saprei. Ma l'AC Universale dovrebbe saperlo.
--Vogliamo domandarglielo? Ora m'hai messo in curiosità.
Le percezioni di Zee Prime si dilatarono fino a che le Galassie stesse si rimpicciolirono e divennero uno spolverio diverso e più diffuso sopra uno sfondo assai più vasto. A centinaia di miliardi, ve n'erano, tutte con i loro esseri immortali, tutte recanti il loro carico di intelligenze, con menti che fluttuavano liberamente nello spazio. Eppure, una di esse era unica tra tutte, in quanto era la Galassia originale. Una di esse, nel suo vago e distante passato, aveva un periodo in cui era stata l'unica Galassia popolata dall'uomo.
Zee Prime ardeva dalla curiosità di vedere quella Galassia e chiamò: -- AC Universale! Su quale Galassia ha avuto origine il genere umano?
L'AC Universale udì, poiché su ogni mondo e attraverso tutto lo spazio aveva pronti i suoi ricettori, e ogni ricettore, attraverso i'iperspazio, conduceva a qualche punto ignoto dove l'AC Universale si teneva in disparte.
Zee Prime sapeva di un solo uomo i cui pensieri erano penetrati entro una distanza dalla quale era ancora possibile captare l'AC Universale, e costui aveva riferito d'avere intravisto a fatica un globo luminoso, dei diametro di mezzo metro.
-- Ma è mai possibile che l'AC Universale sia tutto lì? -- aveva domandato Zee Prime -- La maggior parte di esso -- era stata Ia risposta -- è nell'iperspazio. Sotto quale forma, proprio non saprei immaginare.
-- Né alcuno lo poteva, perché ne era passato di tempo. Zee Prime lo sapeva, dal giorno in cui un uomo aveva avuto una parte sia pure secondaria nella creazione di un AC Universale. Ciascun AC Universale progettava e costruiva il suo successore. Ciascun AC, durante la sua esistenza di un milione di anni e più, accumulava i dati necessari a costruire un successore migliore, più complesso ed efficiente, in cui il suo stesso bagaglio di dati e di individualità sarebbe rimasto sommerso.
L'AC Universale interruppe i pensieri divaganti di Zee Prime, non con parole ma con una sorta di influsso direttivo. Zee Prime venne guidato entro il confuso mare delle Galassie fino a che una in particolare si ingrandì, mostrandosi in tutte le sue stelle.
Un pensiero, infinitamente lontano ma infinitamente chiaro, arrivò a Zee Prime: QUESTA E' LA GALASSIA ORIGINALE DELL'UOMO. Ma era identica a tutte le altre, alla fin fine, e Zee Prime soffocò il suo disappunto.
Dee Sub Wun, la cui mente aveva accompagnato l'altra, domandò all'improvviso: -- E una di queste è la stella originale dell'Uomo? LA STELLA ORIGINALE DELL'UOMO E' DIVENTATA UNA NOVA, rispose l'AC Universale. È UNA NANA BIANCA.
-- E gli uomini che ci vivevano sono morti? -- domandò Zee Prime. senza riflettere.
COME SEMPRE IN QUESTI CASI, disse l'AC Universale, PER I LORO CORPI E' STATO COSTRUITO IN TEMPO UN MONDO NUOVO.
-- Eh, già, è vero -- disse Zee Prime, ma ugualmente si sentiva sopraffatto da un senso di vuoto. La sua mente allentò la presa sulla Galassia originale dell'Uomo, lasciò che questa si ritraesse bruscamente fino a perdersi tra l'ammasso confuso di punti luminosi. Si augurava di non rivederla più.
-- Che c'è? -- domandò Dee Sub Wun. -- Qualcosa che non va?
-- Le stelle stanno morendo. La stella originale è morta.
-- Che c'è di strano? Tutte devono morire.
-- Ma quando tutta l'energia si sarà esaurita, moriranno anche nostri corpi, e tu ed io con loro.
-- Ci vorranno miliardi di anni.
-- Ma io non voglio che accada, nemmeno tra miliardi di anni. AC Universale! Come si può impedire che le stelle muoiano?
Divertito, Dee Sub Wen osservò: -- Stai domandandogli come si potrebbe invertire l'andamento dell'entropia.
PER ORA MANCANO DATI SUFFICIENTI, rispose l'AC Universale, PER UNA RISPOSTA SIGNIFICATIVA.
Zee Prime lasciò che i suoi pensieri riaffluissero verso la sua vera Galassia. Non si curò più di Dee Sub Wun, il cui corpo poteva essere in attesa su una Galassia distante un trilione di anni luce, così come sulla stella accanto a quella di Zee Prime. Non aveva importanza.
Desolato, Zee Prime cominciò a raccogliere idrogeno interstellare con il quale costruirsi una stellina tutta per sé. Se anche le stelle dovevano morire tutte, prima o poi, per ora era ancora possibile costruirne qualcuna.
L'Uomo rifletteva tra sé e sé perché in un certo senso, mentalmente, l'Uomo era unico. Era formato da trilioni, trilioni e trilioni di corpi senza età, ciascuno al suo posto, ciascuno immobile e incorruttibile, ciascuno accudito da automi perfetti e altrettanto incorruttibili, mentre le menti di tutti quei corpi si fondevano liberamente l'una nell'altra, indistinguibili.
-- L'Universo sta morendo -- disse l'Uomo.
Guardò, intorno a sé, le Galassie sempre più fioche. Le stelle giganti, così spendaccione, si erano spente da un pezzo, laggiù nel buio del più oscuro passato remoto. Quasi tutte le stelle erano nane bianche, sul punto di spegnersi.
Nuove stelle erano state costruite con la polvere interstellare, alcune per un processo naturale, altre dall'Uomo stesso, e anche quelle stavano per decadere. Era ancora possibile far cozzare tra loro delle nane bianche e, dalle possenti forze così sprigionate, far scaturire nuove stelle; ma una soltanto, ogni mille nane bianche distrutte e anche quelle poche, presto o tardi, avrebbero finito per decadere.
-- Amministrata con estrema oculatezza, secondo i dettagli dell'AC Cosmico -- disse l'Uomo -- l'energia che ancora rimane nell'Universo durerà miliardi di anni.
-- Ciò nonostante -- obiettò l'Uomo -- prima o poi tutto avrà una fine. Per quanto oculatamente amministrata, per quanto sfruttata al massimo, l'energia, una volta spesa, è perduta per sempre, nessuno può sostituirla. L'entropia non può che aumentare, fino raggiungere un massimo.
-- E possibile invertire l'entropia? -- domandò infine l'Uomo. - Sentiamo che cosa ne dice l'AC Cosmico.
L'AC Cosmico li circondava, ma non nello spazio. Neppure un frammento di AC Cosmico si trovava nello spazio. Era nell'iperspazio, ed era fatto di qualcosa che non era né materia né energia. Il problema delle sue dimensioni e della sua natura non era più traducibile in termini che l'Uomo potesse comprendere.
-- AC Cosmico -- invocò l'Uomo -- è possibile invertire l'entropia?
FINORA, rispose l'AC Cosmico, NON ABBIAMO DATI SUFFIClENTI PER UNA RISPOSTA SIGNIFICATIVA.
-- Raccogline altri -- ordinò l'Uomo.
-- LO FARO', disse l'AC Cosmico. LO STO FACENDO DA CENTO MILIARDI DI ANNI. I MIEI PREDECESSORI E IO Cl SIAMO SENTITI FARE QUESTA DOMANDA MOLTE VOLTE. TUTTI I DATI CHE HO RIMANGONO INSUFFICIENTI.
-- Verrà un tempo -- domandò l'Uomo -- in cui i dati saranno sufficienti, o questo problema è insolubile in tutte le circostanze possibili e immaginabili?
NESSUN PROBLEMA E' INSOLUBILE IN TUTTE LE CIRCOSTANZE POSSIBILI E IMMAGINABILI, rispose l'AC Cosmico.
-- Quando avrai i dati sufficienti per rispondere alla domanda? -- volle sapere l'Uomo.
FINORA I DATI SONO INSUFFICIENTI PER UNA RISPOSTA SIGNIFICATIVA, rispose l'AC Cosmico.
-- Continuerai a occupartene? -- domandò l'Uomo.
LO FARO', promise l'AC Cosmico.
-- Aspetteremo -- disse l'Uomo.
Le stelle e le Galassie morirono e si spensero, e lo spazio, dopo dieci trilioni d'anni di decadimento, divenne nero.
Un individuo alla volta, l'Uomo si fuse con AC, e ciascun corpo fisico perdeva la sua idoneità mentale in un modo che, a conti fatti non si traduceva in una perdita ma in un guadagno.
L'ultima mente dell'Uomo esitò, prima della fusione, contemplando uno spazio che comprendeva soltanto i fondi di un'ultima stella quasi spenta e nient'altro che materia incredibilmente rarefatta, agitata a casaccio da rimasugli finali di calore che calava, asintoticamente, verso lo zero assoluto.
-- È questa la fine, AC? -- domandò l'Uomo. -- Non è possibile ritrasformare ancora una volta questo, caos nell'Universo? Non si può invertire il processo?
MANCANO ANCORA I DATI SUFFICIENTI PER UNA RISPOSTA SIGNIFICATIVA, disse AC.
L'ultima mente dell'Uomo si fuse e soltanto AC esisteva, ormai nell'iperspazio.
Materia ed energia erano terminate e, con esse, lo spazio e il tempo. Perfino AC esisteva unicamente in nome di quell'ultima domanda alla quale non c'era mai stata risposta dal tempo in cui un assistente semi-ubriaco, dieci trilioni d'anni prima, l'aveva rivolta a calcolatore che stava ad AC assai meno di quanto l'uomo stesse all'Uomo.
Tutte le altre domande avevano avuto risposta e, finché quell'ultima non fosse stata anch'essa soddisfatta, AC non si sarebbe forse liberato della consapevolezza di sé.
Tutti i dati raccolti erano arrivati alla fine, ormai. Da raccogliere non rimaneva più niente.
Ma i dati raccolti dovevano ancora essere correlati e accostati secondo tutte le relazioni possibili.
Un intervallo senza tempo venne speso a far questo.
E accadde, così, che AC scoprisse come si poteva invertire l'andamento dell'entropia.
Ma ormai non c'era nessuno cui AC potesse fornire la risposta all'ultima domanda. Pazienza! La risposta -- per dimostrazione -- avrebbe provveduto anche a questo.
Per un altro intervallo senza tempo, AC pensò al modo migliore per riuscirci. Con cura, AC organizzò il programma.
La coscienza di AC abbracciò tutto quello che un tempo era stato un Universo e meditò sopra quello che adesso era Caos.
Un passo alla volta, così bisognava procedere.
LA LUCE SIA! disse AC.
E la luce fu...
mercoledì 17 dicembre 2008
E quindi?
Ho sempre pensato che la vera differenza tra l'uomo e la scimmia stesse nella capacità di svolgere semplici operazioni matematiche.
Forse sarà la formazione scientifica, forse sarà una propensione genetica, ma i numeri mi sono sempre piaciuti.
E sono affascinato quando scopro come alla base della bellezza nella sua accezione più ampia ci sia sempre ed in ogni caso un calcolo matematico.
Che a volte può essere anche molto semplice, come nel caso del valtzer, o nel rapporto aureo della cappella sistina.
Ma che sfugge in ogni modo ai più.
E questa affinità, questa capacità di trovare il nesso matematico che sta alla base di molti meccanismi va di pari passo con la altrettanto rara capacità di trarre conclusioni logiche.
Quello che in breve è la capacità di sintesi.
La sintesi, raro frutto in via di estinzione nel mondo delle parole vuote, e che ci manca ormai come l'aria.
E questa mancanza emerge e si evidenzia nel crescente numero di "e quindi?" che la gente usa ormai come interloquire.
"E quindi?" è un atto di ribellione contro quelli che non riescono mai a giungere ad una conclusione, a tirare una riga ed a fare poi il totale proprio sotto.
E prima che siate voi stessi a ripagarmi con la stessa moneta chiedendomi "E quindi?", vedrò di arrivare al punto.
Dopo anni di sbeffeggiamenti per il caso Parmalat, per un molto rispettabile signore della bassa padana che era riuscito per anni ad "infinocchiare" tutti gli organismi di controllo - Consob in prima fila - con rudimentali estratti conto taroccati allo scanner, abbiamo finalmente avuto la nostra piccola vendetta.
Dall'altra parte dell'oceano è scoppiato un bubbone da far impallidire il signor Tanzi al solo confronto.
Il quale, immagino, in questi giorni sarà verde di bile e starà sviluppando un vero e proprio complesso di inferiorità.
Entri il protagonista:
Mister Madoff.
Ha fatto un buco da cinquanta miliardi di dollari.
Sono talmente tanti che verrebbe da scrivere "migliardi" con la gi, per enfatizzare ancor di più l'enormità del numero.
Talmente grande che necessita di ben dieci, dico DIECI zeri dopo il cinque.
Il simpaticone si è allegramente fumato una cifra pari al 2,5% del debito pubblico italiano.
Erano soldi che gli erano stati dati in gestione da banche, fondi di investimento (e fin qui poco male) ma anche da privati e organizzazioni benefiche.
Ha confessato, è stato arrestato e subito dopo liberato su cauzione di dieci milioni di dollari.
Roba da girarsi a cercare la telecamera nascosta che filma la nostra reazione!
Ed è proprio qui che la sintesi ci dovrebbe venire in aiuto.
Ma come spesso capita la domanda non sorge spontanea.
Ma come è possibile - mi domando - che una sola persona abbia potuto organizzare una truffa così gigantesca?
Apriva lui le lettere che arrivavano con la posta?
Era l'unico ad avere accesso alle posizioni in tutta la sua azienda?
Era lui che faceva le riconciliazioni, che stilava i documenti ed i reports che poi dava a clienti ed analisti?
E i dipendenti della sua azienda non si erano accorti di nulla?
Ma che facevano tutto il giorno?
Chattavano su Facebook?
E i controllers della Security Exchange Commission che facevano invece di controllare un Hedge Fund così pachidermico?
Giocavano a tetris?
Dormivano con i piedi sulla scrivania come Homer Simpson mentre il reattore nucleare va a fuoco?
Come direbbe il buon Josè: "Incredibbile amisci!!".
Seconda domandina logica: Ma se questo campione di probità (era stato amministratore del Nasdaq ed aveva perfino testimoniato davanti al Congresso in qualità di advisor per intensificare i controlli antitruffa, una vera barzelletta!!) ha potuto fare una cosa di questo tipo, è veramente logico che sia stato l'unico?
Quanti Madoff ci sono ancora nascosti nei cespugli?
E per finire l'ultima domandina facile facile:
Indebitamento medio di ogni cittadino americano: 200.000 dollari
Risparmio annuo medio di ogni cittadino americano: 400 dollari
Secondo voi uno così che possibilità ha di venirne fuori?
Forse sarà la formazione scientifica, forse sarà una propensione genetica, ma i numeri mi sono sempre piaciuti.
E sono affascinato quando scopro come alla base della bellezza nella sua accezione più ampia ci sia sempre ed in ogni caso un calcolo matematico.
Che a volte può essere anche molto semplice, come nel caso del valtzer, o nel rapporto aureo della cappella sistina.
Ma che sfugge in ogni modo ai più.
E questa affinità, questa capacità di trovare il nesso matematico che sta alla base di molti meccanismi va di pari passo con la altrettanto rara capacità di trarre conclusioni logiche.
Quello che in breve è la capacità di sintesi.
La sintesi, raro frutto in via di estinzione nel mondo delle parole vuote, e che ci manca ormai come l'aria.
E questa mancanza emerge e si evidenzia nel crescente numero di "e quindi?" che la gente usa ormai come interloquire.
"E quindi?" è un atto di ribellione contro quelli che non riescono mai a giungere ad una conclusione, a tirare una riga ed a fare poi il totale proprio sotto.
E prima che siate voi stessi a ripagarmi con la stessa moneta chiedendomi "E quindi?", vedrò di arrivare al punto.
Dopo anni di sbeffeggiamenti per il caso Parmalat, per un molto rispettabile signore della bassa padana che era riuscito per anni ad "infinocchiare" tutti gli organismi di controllo - Consob in prima fila - con rudimentali estratti conto taroccati allo scanner, abbiamo finalmente avuto la nostra piccola vendetta.
Dall'altra parte dell'oceano è scoppiato un bubbone da far impallidire il signor Tanzi al solo confronto.
Il quale, immagino, in questi giorni sarà verde di bile e starà sviluppando un vero e proprio complesso di inferiorità.
Entri il protagonista:
Mister Madoff.
Ha fatto un buco da cinquanta miliardi di dollari.
Sono talmente tanti che verrebbe da scrivere "migliardi" con la gi, per enfatizzare ancor di più l'enormità del numero.
Talmente grande che necessita di ben dieci, dico DIECI zeri dopo il cinque.
Il simpaticone si è allegramente fumato una cifra pari al 2,5% del debito pubblico italiano.
Erano soldi che gli erano stati dati in gestione da banche, fondi di investimento (e fin qui poco male) ma anche da privati e organizzazioni benefiche.
Ha confessato, è stato arrestato e subito dopo liberato su cauzione di dieci milioni di dollari.
Roba da girarsi a cercare la telecamera nascosta che filma la nostra reazione!
Ed è proprio qui che la sintesi ci dovrebbe venire in aiuto.
Ma come spesso capita la domanda non sorge spontanea.
Ma come è possibile - mi domando - che una sola persona abbia potuto organizzare una truffa così gigantesca?
Apriva lui le lettere che arrivavano con la posta?
Era l'unico ad avere accesso alle posizioni in tutta la sua azienda?
Era lui che faceva le riconciliazioni, che stilava i documenti ed i reports che poi dava a clienti ed analisti?
E i dipendenti della sua azienda non si erano accorti di nulla?
Ma che facevano tutto il giorno?
Chattavano su Facebook?
E i controllers della Security Exchange Commission che facevano invece di controllare un Hedge Fund così pachidermico?
Giocavano a tetris?
Dormivano con i piedi sulla scrivania come Homer Simpson mentre il reattore nucleare va a fuoco?
Come direbbe il buon Josè: "Incredibbile amisci!!".
Seconda domandina logica: Ma se questo campione di probità (era stato amministratore del Nasdaq ed aveva perfino testimoniato davanti al Congresso in qualità di advisor per intensificare i controlli antitruffa, una vera barzelletta!!) ha potuto fare una cosa di questo tipo, è veramente logico che sia stato l'unico?
Quanti Madoff ci sono ancora nascosti nei cespugli?
E per finire l'ultima domandina facile facile:
Indebitamento medio di ogni cittadino americano: 200.000 dollari
Risparmio annuo medio di ogni cittadino americano: 400 dollari
Secondo voi uno così che possibilità ha di venirne fuori?
giovedì 4 dicembre 2008
Equilibrio improbabile
All’inizio partì così, quasi per caso.
Non che non si fosse capito che una qualche sorta di interesse in ogni caso ci fosse.
Tutto però si limitava ad un giro in moto ogni tanto o a qualche sms distratto.
Ad un certo punto qualcosa in lei scattò e varcò la soglia dell’attrazione.
Scoprì che quello che aveva sempre considerato come un amico forse non era poi soltanto da reputarsi tale.
A lui lei non dispiaceva e poi si sa, noi uomini nel momento in cui una ragazza carina ce la tira dietro con una fionda raramente sappiamo dir di no.
Lei si presentò una sera a casa di lui, caricò la fionda e gliela tirò dietro.
La cosa avvenne in maniera molto naturale, senza forzature.
Fu anche molto passionale e quindi si capì subito che non sarebbe stato un “one night stand”.
Lui però, aldilà del fatto che con lei ci stava bene, non è che fosse più di tanto “sotto” per lei.
Lei invece un po’ di più.
Lei fece un viaggio in centroamerica ed in quelle due settimane capì che lui era importante.
Le donne son così, i viaggi non le lasciano mai indifferenti.
O tornano con la testa piena di grilli o si incozziscono a livelli preoccupanti.
A lui però fece un effetto strano.
Continuava a starci bene ma non voleva legami, aveva un paio di cose ancora da risolvere e prendeva tempo.
La cosa si prolungò in questa maniera sbilanciata per alcuni mesi e quando venne l’estate, una sera di quelle in cui comincia a fare caldo, lui capì che stava cominciando ad “andare sotto”.
Non sapeva perché, ma con lei si trovava bene e molto spesso pensava a momenti vissuti insieme, a situazioni buffe in cui si era riso a crepapelle, a quell’attimo di pace assoluta che provava dopo aver fatto l’amore con lei.
Lei un pomeriggio glielo lesse nello sguardo e la cosa la spaventò.
Sotto un treno non c’è spazio per due, o ci sta uno o ci sta l’altro.
E’ sempre così.
E anni di deriva genetica presero il sopravvento.
Lei amava la sua forza ed il suo distacco distratto e di quella nuova girlie-version non sapeva proprio che farsene.
L’equilibrio durò un secondo e poi si perse, a lei scese la catena e comincio a trattarlo con freddezza.
Lui la prese male ed andò ancora più sotto, ormai non c’era traversina tra i binari che lui si perdesse.
Una sera lei lo lasciò, in maniera quasi distratta, come se non le fosse mai importato nulla.
Lui entrò nel tunnel, quel tunnel che tutti conosciamo e che rappresenta l’anticamera della schizofrenia pura.
Quel tunnel dove sai che stai facendo la mossa sbagliata, ma la fai lo stesso perché è più forte di te.
E sei talmente fuori da teorizzare che sia giusto pur essendo sbagliato, dove affermi il significato catartico e liberatorio insito nell’ossimoro, senza esserne veramente convinto anche tu.
Poi improvvisamente lui si riprese e smise di essere un altro.
Iniziò la lunga traversata del deserto.
All’inizio ogni giorno era così pesante, ogni momento guardava il blackberry per vedere se era arrivata una sua mail od un suo sms.
Ma ogni giorno diventava sempre più facile, lui stava reagendo bene.
Usciva tutte le sere ed affogava il suo disgusto portando in giro la sua vita.
Passò un mese e poi due.
Lui continuava a pensarci, certo, ma la cosa non era più così delirante.
Poi, dopo che fu passato ancora un po’, arrivò l’sms.
E li, ancora una volta, tutto cambiò.
A lui non fece nessun effetto, lo trovò banale e pure un po’ vigliacco.
E bevve a grandi sorsi questa nuova sensazione, si dissetò della propria ritrovata sicurezza e non le rispose.
Lei per un po’ attese.
In fin dei conti tornare sui suoi passi non le piaceva e di sicuro non si sarebbe mai spinta a chiedere scusa per quello che aveva fatto.
Poi l’attesa divenne insopportabile, cominciò a pensare che fosse il caso di ritornare alla carica.
Pensò per lungo tempo al tipo di messaggio da scrivere, se andare sul neutro o sbilanciarsi un po’ di più.
Scrisse venti sms diversi e li cancellò tutti senza inviarli.
Alcuni non erano male, ma come sempre capita inviò il più banale e questo le dette la botta finale.
Lui lo lesse e dopo aver fatto una smorfia rischiacciò due volte C e la cancellò.
A questo punto la situazione si ricapovolse.
Lei comincio a chiamarlo, lui vedeva il suo numero sul display e non rispondeva.
Lei torno’ sotto e lui tornò quello d’un tempo.
Le sembrava di non aver mai smesso di amarlo, la sensazione tiepida dell’estate era come se non le fosse mai appartenuta.
Poi un giorno finalmente lui le rispose.
Dal “Pronto” di lui lei capì di essere spacciata.
Si rividero e lei riuscì a colmare il risentimento di lui.
Usò la carta che usano sempre le donne: fece leva sul sesso.
E lui cominciò gradualmente a concederle una parte sempre maggiore del suo tempo libero.
Ed ora la pubblicità....
Non che non si fosse capito che una qualche sorta di interesse in ogni caso ci fosse.
Tutto però si limitava ad un giro in moto ogni tanto o a qualche sms distratto.
Ad un certo punto qualcosa in lei scattò e varcò la soglia dell’attrazione.
Scoprì che quello che aveva sempre considerato come un amico forse non era poi soltanto da reputarsi tale.
A lui lei non dispiaceva e poi si sa, noi uomini nel momento in cui una ragazza carina ce la tira dietro con una fionda raramente sappiamo dir di no.
Lei si presentò una sera a casa di lui, caricò la fionda e gliela tirò dietro.
La cosa avvenne in maniera molto naturale, senza forzature.
Fu anche molto passionale e quindi si capì subito che non sarebbe stato un “one night stand”.
Lui però, aldilà del fatto che con lei ci stava bene, non è che fosse più di tanto “sotto” per lei.
Lei invece un po’ di più.
Lei fece un viaggio in centroamerica ed in quelle due settimane capì che lui era importante.
Le donne son così, i viaggi non le lasciano mai indifferenti.
O tornano con la testa piena di grilli o si incozziscono a livelli preoccupanti.
A lui però fece un effetto strano.
Continuava a starci bene ma non voleva legami, aveva un paio di cose ancora da risolvere e prendeva tempo.
La cosa si prolungò in questa maniera sbilanciata per alcuni mesi e quando venne l’estate, una sera di quelle in cui comincia a fare caldo, lui capì che stava cominciando ad “andare sotto”.
Non sapeva perché, ma con lei si trovava bene e molto spesso pensava a momenti vissuti insieme, a situazioni buffe in cui si era riso a crepapelle, a quell’attimo di pace assoluta che provava dopo aver fatto l’amore con lei.
Lei un pomeriggio glielo lesse nello sguardo e la cosa la spaventò.
Sotto un treno non c’è spazio per due, o ci sta uno o ci sta l’altro.
E’ sempre così.
E anni di deriva genetica presero il sopravvento.
Lei amava la sua forza ed il suo distacco distratto e di quella nuova girlie-version non sapeva proprio che farsene.
L’equilibrio durò un secondo e poi si perse, a lei scese la catena e comincio a trattarlo con freddezza.
Lui la prese male ed andò ancora più sotto, ormai non c’era traversina tra i binari che lui si perdesse.
Una sera lei lo lasciò, in maniera quasi distratta, come se non le fosse mai importato nulla.
Lui entrò nel tunnel, quel tunnel che tutti conosciamo e che rappresenta l’anticamera della schizofrenia pura.
Quel tunnel dove sai che stai facendo la mossa sbagliata, ma la fai lo stesso perché è più forte di te.
E sei talmente fuori da teorizzare che sia giusto pur essendo sbagliato, dove affermi il significato catartico e liberatorio insito nell’ossimoro, senza esserne veramente convinto anche tu.
Poi improvvisamente lui si riprese e smise di essere un altro.
Iniziò la lunga traversata del deserto.
All’inizio ogni giorno era così pesante, ogni momento guardava il blackberry per vedere se era arrivata una sua mail od un suo sms.
Ma ogni giorno diventava sempre più facile, lui stava reagendo bene.
Usciva tutte le sere ed affogava il suo disgusto portando in giro la sua vita.
Passò un mese e poi due.
Lui continuava a pensarci, certo, ma la cosa non era più così delirante.
Poi, dopo che fu passato ancora un po’, arrivò l’sms.
E li, ancora una volta, tutto cambiò.
A lui non fece nessun effetto, lo trovò banale e pure un po’ vigliacco.
E bevve a grandi sorsi questa nuova sensazione, si dissetò della propria ritrovata sicurezza e non le rispose.
Lei per un po’ attese.
In fin dei conti tornare sui suoi passi non le piaceva e di sicuro non si sarebbe mai spinta a chiedere scusa per quello che aveva fatto.
Poi l’attesa divenne insopportabile, cominciò a pensare che fosse il caso di ritornare alla carica.
Pensò per lungo tempo al tipo di messaggio da scrivere, se andare sul neutro o sbilanciarsi un po’ di più.
Scrisse venti sms diversi e li cancellò tutti senza inviarli.
Alcuni non erano male, ma come sempre capita inviò il più banale e questo le dette la botta finale.
Lui lo lesse e dopo aver fatto una smorfia rischiacciò due volte C e la cancellò.
A questo punto la situazione si ricapovolse.
Lei comincio a chiamarlo, lui vedeva il suo numero sul display e non rispondeva.
Lei torno’ sotto e lui tornò quello d’un tempo.
Le sembrava di non aver mai smesso di amarlo, la sensazione tiepida dell’estate era come se non le fosse mai appartenuta.
Poi un giorno finalmente lui le rispose.
Dal “Pronto” di lui lei capì di essere spacciata.
Si rividero e lei riuscì a colmare il risentimento di lui.
Usò la carta che usano sempre le donne: fece leva sul sesso.
E lui cominciò gradualmente a concederle una parte sempre maggiore del suo tempo libero.
Ed ora la pubblicità....
martedì 18 novembre 2008
Amanda
Al Fingers fanno una cucina fusion-giapponese.
Uno dei proprietari è Clarence Seedorf, il giocatore del Milan.
Mai capito cosa porta i calciatori a voler “diversificare” nei ristoranti.
E soprattutto cosa li spinge ad investire in una attività complicata e dove le mode cambiano velocemente, lasciando spesso gli investitori con un pugno di mosche.
Il posto è carino e ben illuminato, anche se abbastanza sconclusionato nell’arredamento.
Lo chef sembra essere un brasiliano di etnia giapponese, che sa ben miscelare i piatti tipici della cucina del sol levante con gli influssi latino americani.
Il posto è sempre pieno ed occorre prenotare con qualche giorno di anticipo se non si vuole rischiare di rimbalzare.
La specialità della casa sono però i dolci, o meglio colei che li propone.
Dopo il sushi, il sashimi e una serie di prelibatezze esotiche arriva lei con un vassoio che appoggia sul tavolo e che contiene un “campione” di tutte le proposte dello chef.
Non sono foto e neppure i modellini plasticosi tipici di molti ristoranti giapponesi.
Sono proprio loro, “the real thing”.
E lei, non so come si chiama ma se dovessi indovinare direi Amanda, è veramente il pezzo forte.
Mulatta, sui 25 anni, denti bianchissimi con gli incisivi separati da un intrigante diastema.
Come si può intuire Amanda non è precisamente un’indossatrice anoressica, direi piuttosto una florida futura “mamie” che potrebbe essere spuntata da un film come Via col vento.
Appare subito lampante come la sua per i dolci sia più che una passione.
Mentre li elenca i suoi occhi li guardano uno per uno, come se fossero le sue creature.
C’è un attaccamento quasi peccaminoso nel modo in cui accarezza i piattini con le mani, nel modo in cui si inumidisce le labbra pronunciando la parola "fondente".
Il suo è puro desiderio.
E lo ostenta senza il minimo rimorso.
Di qualcosa nella vita si dovrà pur morire....
Uno dei proprietari è Clarence Seedorf, il giocatore del Milan.
Mai capito cosa porta i calciatori a voler “diversificare” nei ristoranti.
E soprattutto cosa li spinge ad investire in una attività complicata e dove le mode cambiano velocemente, lasciando spesso gli investitori con un pugno di mosche.
Il posto è carino e ben illuminato, anche se abbastanza sconclusionato nell’arredamento.
Lo chef sembra essere un brasiliano di etnia giapponese, che sa ben miscelare i piatti tipici della cucina del sol levante con gli influssi latino americani.
Il posto è sempre pieno ed occorre prenotare con qualche giorno di anticipo se non si vuole rischiare di rimbalzare.
La specialità della casa sono però i dolci, o meglio colei che li propone.
Dopo il sushi, il sashimi e una serie di prelibatezze esotiche arriva lei con un vassoio che appoggia sul tavolo e che contiene un “campione” di tutte le proposte dello chef.
Non sono foto e neppure i modellini plasticosi tipici di molti ristoranti giapponesi.
Sono proprio loro, “the real thing”.
E lei, non so come si chiama ma se dovessi indovinare direi Amanda, è veramente il pezzo forte.
Mulatta, sui 25 anni, denti bianchissimi con gli incisivi separati da un intrigante diastema.
Come si può intuire Amanda non è precisamente un’indossatrice anoressica, direi piuttosto una florida futura “mamie” che potrebbe essere spuntata da un film come Via col vento.
Appare subito lampante come la sua per i dolci sia più che una passione.
Mentre li elenca i suoi occhi li guardano uno per uno, come se fossero le sue creature.
C’è un attaccamento quasi peccaminoso nel modo in cui accarezza i piattini con le mani, nel modo in cui si inumidisce le labbra pronunciando la parola "fondente".
Il suo è puro desiderio.
E lo ostenta senza il minimo rimorso.
Di qualcosa nella vita si dovrà pur morire....
martedì 11 novembre 2008
Quasi
Bum bum
La testa bassa, incassata tra le spalle, guardo l’asfalto scorrere tra le mie gambe.
Sento il cuore in gola.
Bum bum
Un’occhiata all’orologio per vedere a quanto pulsa, lo so già che sono al limite e di più non dovrei spingere.
Centosettantasei
Ma ho davanti un’omino che pedala come un ossesso, in piedi sui pedali.
Mi ha passato come se nulla fosse, sembrava un treno.
Di lasciarlo andare non se ne parla proprio.
Tanto più che gli sto succhiando la ruota, che è lui che mi apre l’aria e per me stargli dietro dovrebbe essere una passeggiata di salute.
Trentotto.
Quaranta.
Cazzo come fa a fare i quaranta, vede la mia ombra che lo insegue sull’asfalto e mi vuole dar la paga.
Il bastardo.
Bum bum
Centottantatre.
Quaranta all’ora, va come un Ciao.
Mister Ciao, fra un po’ mi sa che sarò io a dirti ciao.
Cambia rapporto, allunga, io stringo i denti e gli sto dietro.
Lui sempre in piedi sui pedali, sembra una macchina.
Una raffica di vento mi sposta leggermente.
L’aria sa di erba appena tagliata.
In mezzo c’è il naviglio che scorre pigro e le macchine dall’altro lato sembrano del tutto silenziose.
Sento solo il mio cuore.
Bum bum.
Resisti cazzo, non mollare.
Almeno fino alla cascina delle mucche.
Se arrivi fino a li tutto si risolve, tutto passa, tutto ritorna ad essere come era prima.
Bum bum.
Beep.
L’orologio ha fatto beep, ho superato la soglia di sicurezza.
Fermati scemo non hai più vent’anni.
‘Ste cose falle fare ai coglioni che non sanno cos’è un infarto, non sanno come capita, non conoscono i danni irreparabili e la mezza vita che si è costretti poi a far scorrere.
Beep
Centottantasette
Lo sapevo, se fa beep è oltre i 185.
Mi bruciano le gambe, mi pulsano le tempie e alzo la testa un’ultima volta, per vederlo sempre in piedi sui pedali.
E’ orribile, tutto gambe e niente busto, lo odio per come mi sta stracciando.
Sarà venti centimetri più basso, arriva a stento agli uno e settanta, peserà venti chili di meno.
Beep.
E’ per quello che mi va via e poi lui non ha che la bici, lui non è come me.
Basta non ce la faccio più.
Io mollo, ma solo perché non sono come lui, io mollo perché sono meglio di lui.
Un metro due metri tre.
Il cono d’aria rarefatta nel quale lo seguivo diventa turbolenza.
Da tre a venti ci mette un momento e poi è finita.
Sbuffo e rallento.
Non so perché debba essere così importante
E’ forse perché in questo periodo girano tutte storte.
Uno si attacca alle cazzate.
Qualsiasi piccolo episodio diventa un segno di svolta.
Se ce la faccio da oggi in poi cambia tutto.
L’orologio ha smesso di far beep
Centocinquantasette, non lo sento più battermi in gola.
Ci credo, sto andando a ventisei, tra un po’ mi supera pure un bambino in triciclo.
Mi bevo l’aria.
La caccio dentro come se potesse fare pulizia, portare via tutto lo smog che si respira a Milano. Ultimamente poi il traffico è un massacro.
Bella pensata quella dell’ecopass.
Tutto il centro senza auto inquinanti, peccato che tutto attorno ci sia un macello quadruplo.
E se tutto attorno il traffico aumenta, secondo te al centro l’aria diventa più respirabile?
Passo la cascina delle mucche.
Il loro odore mi fa tornare indietro a quattro anni, mi succede ogni volta.
La mia nonna mi prendeva per mano e mi portava nella stalla del Celso a vedere la mucca.
Mai capito se Celso fosse il suo vero nome, di Celso non ne ho mai più incontrato uno.
Era un tipo alto e sicco, che si muoveva in modo allampanato.
Aveva pure un cavallo che attaccava alla carrozza la domenica e si andava a far la passeggiata.
Poi a casa mi faceva pane e Mutella.
Mai capito perché la chiamasse così, la enne era scritta grossa sul barattolo.
Impossibile sbagliarsi.
Ma forse lo faceva apposta.
Perché gli piaceva chiamarla così.
Mai osato chiederglielo.
L’aria fresca che mi passa tra i capelli asciuga il mio sudore.
Sono quasi arrivato al punto in cui mi fermo.
Alla fine della strada, appena dopo il cimitero, dove c’è il ponte che ti porta in centro o se ci passi sotto continui sul Naviglio.
In centro si fa per dire perché al pensiero del centro di Abbiategrasso mi viene un po’ da ridere.
Abbiategrasso downtown.
Ma chi l’avrà dato un nome simile a una città?
Sembra un’ode a Mac Donald’s.
Gli abitanti me li immagino tutti ciccioni, che fanno le vasche per la via principale la domenica pomeriggio, mangiandosi giganteschi hamburghers e tutti con la faccia di Poldo Sbaffini, il mio eroe di Braccio di Ferro.
Masticando si fanno cenni di saluto, ma non si parlano, sono troppo intenti a scrofanarsi i loro concentrati di calorie.
Io mi fermo sempre li.
Sul ponte prima.
Sono diciannove chilometri e mezzo.
Il punto in cui si torna indietro.
Fermarsi un po’ prima dei venti lo trovo carino.
Sapere di tornare non potendo dire: “Anche oggi mi sono sparato quaranta chilometri in bici”.
Ho sempre avuto il gusto del quasi.
Del “quasi quaranta chilometri”.
Del “quasi riuscito”.
Del “quasi finito”
Del “quasi baciata”.
Nella rinuncia c’è molta più poesia che nell’ottenimento di quanto si desidera.
Naturalmente solo a volte.
Quando non è così importante mi capita sempre di avere questa pulsione.
Centotrenta.
Non fa più bum bum.
Ricomincio a spingere.
Cercando di diluire nello sforzo tutta l’amarezza di questi ultimi mesi.
Mi sono sempre considerato una persona fortunata.
Mi è sempre girato tutto bene.
Poi all’improvviso è arrivato il cigno nero.
Gli americani lo chiamano così, “the black swan”, l’evento che nessuno si aspetta.
La notte di San Valentino.
La testa bassa, incassata tra le spalle, guardo l’asfalto scorrere tra le mie gambe.
Sento il cuore in gola.
Bum bum
Un’occhiata all’orologio per vedere a quanto pulsa, lo so già che sono al limite e di più non dovrei spingere.
Centosettantasei
Ma ho davanti un’omino che pedala come un ossesso, in piedi sui pedali.
Mi ha passato come se nulla fosse, sembrava un treno.
Di lasciarlo andare non se ne parla proprio.
Tanto più che gli sto succhiando la ruota, che è lui che mi apre l’aria e per me stargli dietro dovrebbe essere una passeggiata di salute.
Trentotto.
Quaranta.
Cazzo come fa a fare i quaranta, vede la mia ombra che lo insegue sull’asfalto e mi vuole dar la paga.
Il bastardo.
Bum bum
Centottantatre.
Quaranta all’ora, va come un Ciao.
Mister Ciao, fra un po’ mi sa che sarò io a dirti ciao.
Cambia rapporto, allunga, io stringo i denti e gli sto dietro.
Lui sempre in piedi sui pedali, sembra una macchina.
Una raffica di vento mi sposta leggermente.
L’aria sa di erba appena tagliata.
In mezzo c’è il naviglio che scorre pigro e le macchine dall’altro lato sembrano del tutto silenziose.
Sento solo il mio cuore.
Bum bum.
Resisti cazzo, non mollare.
Almeno fino alla cascina delle mucche.
Se arrivi fino a li tutto si risolve, tutto passa, tutto ritorna ad essere come era prima.
Bum bum.
Beep.
L’orologio ha fatto beep, ho superato la soglia di sicurezza.
Fermati scemo non hai più vent’anni.
‘Ste cose falle fare ai coglioni che non sanno cos’è un infarto, non sanno come capita, non conoscono i danni irreparabili e la mezza vita che si è costretti poi a far scorrere.
Beep
Centottantasette
Lo sapevo, se fa beep è oltre i 185.
Mi bruciano le gambe, mi pulsano le tempie e alzo la testa un’ultima volta, per vederlo sempre in piedi sui pedali.
E’ orribile, tutto gambe e niente busto, lo odio per come mi sta stracciando.
Sarà venti centimetri più basso, arriva a stento agli uno e settanta, peserà venti chili di meno.
Beep.
E’ per quello che mi va via e poi lui non ha che la bici, lui non è come me.
Basta non ce la faccio più.
Io mollo, ma solo perché non sono come lui, io mollo perché sono meglio di lui.
Un metro due metri tre.
Il cono d’aria rarefatta nel quale lo seguivo diventa turbolenza.
Da tre a venti ci mette un momento e poi è finita.
Sbuffo e rallento.
Non so perché debba essere così importante
E’ forse perché in questo periodo girano tutte storte.
Uno si attacca alle cazzate.
Qualsiasi piccolo episodio diventa un segno di svolta.
Se ce la faccio da oggi in poi cambia tutto.
L’orologio ha smesso di far beep
Centocinquantasette, non lo sento più battermi in gola.
Ci credo, sto andando a ventisei, tra un po’ mi supera pure un bambino in triciclo.
Mi bevo l’aria.
La caccio dentro come se potesse fare pulizia, portare via tutto lo smog che si respira a Milano. Ultimamente poi il traffico è un massacro.
Bella pensata quella dell’ecopass.
Tutto il centro senza auto inquinanti, peccato che tutto attorno ci sia un macello quadruplo.
E se tutto attorno il traffico aumenta, secondo te al centro l’aria diventa più respirabile?
Passo la cascina delle mucche.
Il loro odore mi fa tornare indietro a quattro anni, mi succede ogni volta.
La mia nonna mi prendeva per mano e mi portava nella stalla del Celso a vedere la mucca.
Mai capito se Celso fosse il suo vero nome, di Celso non ne ho mai più incontrato uno.
Era un tipo alto e sicco, che si muoveva in modo allampanato.
Aveva pure un cavallo che attaccava alla carrozza la domenica e si andava a far la passeggiata.
Poi a casa mi faceva pane e Mutella.
Mai capito perché la chiamasse così, la enne era scritta grossa sul barattolo.
Impossibile sbagliarsi.
Ma forse lo faceva apposta.
Perché gli piaceva chiamarla così.
Mai osato chiederglielo.
L’aria fresca che mi passa tra i capelli asciuga il mio sudore.
Sono quasi arrivato al punto in cui mi fermo.
Alla fine della strada, appena dopo il cimitero, dove c’è il ponte che ti porta in centro o se ci passi sotto continui sul Naviglio.
In centro si fa per dire perché al pensiero del centro di Abbiategrasso mi viene un po’ da ridere.
Abbiategrasso downtown.
Ma chi l’avrà dato un nome simile a una città?
Sembra un’ode a Mac Donald’s.
Gli abitanti me li immagino tutti ciccioni, che fanno le vasche per la via principale la domenica pomeriggio, mangiandosi giganteschi hamburghers e tutti con la faccia di Poldo Sbaffini, il mio eroe di Braccio di Ferro.
Masticando si fanno cenni di saluto, ma non si parlano, sono troppo intenti a scrofanarsi i loro concentrati di calorie.
Io mi fermo sempre li.
Sul ponte prima.
Sono diciannove chilometri e mezzo.
Il punto in cui si torna indietro.
Fermarsi un po’ prima dei venti lo trovo carino.
Sapere di tornare non potendo dire: “Anche oggi mi sono sparato quaranta chilometri in bici”.
Ho sempre avuto il gusto del quasi.
Del “quasi quaranta chilometri”.
Del “quasi riuscito”.
Del “quasi finito”
Del “quasi baciata”.
Nella rinuncia c’è molta più poesia che nell’ottenimento di quanto si desidera.
Naturalmente solo a volte.
Quando non è così importante mi capita sempre di avere questa pulsione.
Centotrenta.
Non fa più bum bum.
Ricomincio a spingere.
Cercando di diluire nello sforzo tutta l’amarezza di questi ultimi mesi.
Mi sono sempre considerato una persona fortunata.
Mi è sempre girato tutto bene.
Poi all’improvviso è arrivato il cigno nero.
Gli americani lo chiamano così, “the black swan”, l’evento che nessuno si aspetta.
La notte di San Valentino.
You'll never have a second chance to give a first impression
La prima parola non monoletterale del nostro vocabolario è "abbacinante".
Trovo che sia un vero peccato....
Trovo che sia un vero peccato....
Confusing
Mi domando come sia possibile avere certezze in un paese dove tutto attaccato si scrive staccato e staccato si scrive tutto attaccato.
lunedì 3 novembre 2008
Senza niente
Questa strana sensazione è come se io l'avessi sempre intuita.
Avvertivo la possibilità di spingersi oltre, che non poteva essere tutto qui.
E come sempre capita, quando l'allievo è pronto il maestro appare.
Possiamo passare la nostra intera esistenza a fare le stesse cose, a vivere lo stesso giorno mille, diecimila volte, senza accorgerci che la vita ci sta sfuggendo di mano.
Poi un giorno tutto cambia.
E non sempre per colpa di un evento traumatico.
Non sempre è la perdita di un affetto, del lavoro o di qualche altra sicurezza che determina questo cambiamento.
A volte succede per un dettaglio di nessun conto.
Dopo una cena squisita si apre il pacchetto di sigarette, ci si accorge che ne è rimasta solo una e si decide che quella sarà l'ultima.
Così, senza nessun motivo.
Sono proprio quelle le sfide più dure, quelle non supportate da grandi motivazioni.
Si lo so, corro troppo e molto spesso salto di palo in frasca senza nessun nesso logico, ma adoro lasciare che il mio cervello sguazzi.
Torniamo al punto di partenza.
Per tutta la mia vita ho mangiato quello che più mi andava.
Era come se quanto appreso durante i miei studi di medicina non mi riguardasse.
Noi non siamo solo ciò che sappiamo, siamo anche ciò che mangiamo.
Ma mi ci è voluto un evento "trigger".
Sarà sicuramente banale ma l'evento "trigger" è stato il fatto che avevo finito l'olio.
Ero al mare ed ero appena tornato da correre.
Morivo dalla voglia di farmi un'insalata e una busta piena di giovani germogli mi guardava ammiccante dal frigo.
La bottiglia dell'olio però era vuota.
Dopo aver versato l'intero contenuto della busta nell'insalatiera ho cominciato a mangiarla con le mani.
Senza sale.
Senz'olio.
Senza niente.
Ad ogni boccone assaporavo l'intenso gusto della clorofilla, il gusto delle foglie ed i loro differenti aromi, a seconda delle diverse qualità.
Erano tutte buonissime e l'esperienza è stata quasi eccitante.
Seduto al tramonto sul terrazzo a guardare il mare e a mangiare con le mani foglie di insalata.
Chiudo gli occhi e sento di nuovo il profumo del mare...
Può la felicità nutrirsi di così poco?
Io da quel momento ho capito.
Ho capito che se avessi continuato a non prestare attenzione a quello che introducevo nel mio corpo le cose non sarebbero mai migliorate.
And there's no mountain too high, no river too wide....
Avvertivo la possibilità di spingersi oltre, che non poteva essere tutto qui.
E come sempre capita, quando l'allievo è pronto il maestro appare.
Possiamo passare la nostra intera esistenza a fare le stesse cose, a vivere lo stesso giorno mille, diecimila volte, senza accorgerci che la vita ci sta sfuggendo di mano.
Poi un giorno tutto cambia.
E non sempre per colpa di un evento traumatico.
Non sempre è la perdita di un affetto, del lavoro o di qualche altra sicurezza che determina questo cambiamento.
A volte succede per un dettaglio di nessun conto.
Dopo una cena squisita si apre il pacchetto di sigarette, ci si accorge che ne è rimasta solo una e si decide che quella sarà l'ultima.
Così, senza nessun motivo.
Sono proprio quelle le sfide più dure, quelle non supportate da grandi motivazioni.
Si lo so, corro troppo e molto spesso salto di palo in frasca senza nessun nesso logico, ma adoro lasciare che il mio cervello sguazzi.
Torniamo al punto di partenza.
Per tutta la mia vita ho mangiato quello che più mi andava.
Era come se quanto appreso durante i miei studi di medicina non mi riguardasse.
Noi non siamo solo ciò che sappiamo, siamo anche ciò che mangiamo.
Ma mi ci è voluto un evento "trigger".
Sarà sicuramente banale ma l'evento "trigger" è stato il fatto che avevo finito l'olio.
Ero al mare ed ero appena tornato da correre.
Morivo dalla voglia di farmi un'insalata e una busta piena di giovani germogli mi guardava ammiccante dal frigo.
La bottiglia dell'olio però era vuota.
Dopo aver versato l'intero contenuto della busta nell'insalatiera ho cominciato a mangiarla con le mani.
Senza sale.
Senz'olio.
Senza niente.
Ad ogni boccone assaporavo l'intenso gusto della clorofilla, il gusto delle foglie ed i loro differenti aromi, a seconda delle diverse qualità.
Erano tutte buonissime e l'esperienza è stata quasi eccitante.
Seduto al tramonto sul terrazzo a guardare il mare e a mangiare con le mani foglie di insalata.
Chiudo gli occhi e sento di nuovo il profumo del mare...
Può la felicità nutrirsi di così poco?
Io da quel momento ho capito.
Ho capito che se avessi continuato a non prestare attenzione a quello che introducevo nel mio corpo le cose non sarebbero mai migliorate.
And there's no mountain too high, no river too wide....
mercoledì 22 ottobre 2008
Elogio alla follia
Osservate con quanta previdenza la natura, madre del genere umano, ebbe cura di spargere ovunque un pizzico di follia.
Infuse nell'uomo più passione che ragione perchè fosse tutto meno triste, difficile, brutto, insipido, fastidioso.
Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza, la vecchiaia neppure ci sarebbe.
Se solo fossero più fatui, allegri e dissennati, godrebbero felici di un’eterna giovinezza.
La vita umana non è altro che un gioco della follia.
Infuse nell'uomo più passione che ragione perchè fosse tutto meno triste, difficile, brutto, insipido, fastidioso.
Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza, la vecchiaia neppure ci sarebbe.
Se solo fossero più fatui, allegri e dissennati, godrebbero felici di un’eterna giovinezza.
La vita umana non è altro che un gioco della follia.
Addicted to myself
La solitudine causa assuefazione.
Qualsiasi persona si sia trovata in una fase della sua vita a passare del tempo da sola questo lo sa benissimo.
E' per quello che il maratoneta corre.
Quando corre è solo.
Così come è solo lo scalatore.
Ed il ciclista.
E colui che medita.
E' la solitudine la vera ricchezza del terzo millennio.
C'è sempre qualcuno, c'è sempre rumore, c'è sempre il telefonino che suona.
Lo so, lo so, per la maggior parte degli umani la parola solitudine ha un'accezione negativa.
Ma non è che forse questo derivi dal fatto che l'intelligenza è virtù più rara dell'onestà?
Non è che forse il sentirsi male quando si è soli sia sintomo di scarso acume mentale?
Questo spiega anche la televisione.
Lo stordirsi di suoni ed immagini solo per evitare che il nostro cervello svolga la sua funzione: pensare.
Dio creò il mondo in sei giorni.
Ed il settimo giorno spense il telefonino e finalmente rimase solo.
O forse fece sesso
Qualsiasi persona si sia trovata in una fase della sua vita a passare del tempo da sola questo lo sa benissimo.
E' per quello che il maratoneta corre.
Quando corre è solo.
Così come è solo lo scalatore.
Ed il ciclista.
E colui che medita.
E' la solitudine la vera ricchezza del terzo millennio.
C'è sempre qualcuno, c'è sempre rumore, c'è sempre il telefonino che suona.
Lo so, lo so, per la maggior parte degli umani la parola solitudine ha un'accezione negativa.
Ma non è che forse questo derivi dal fatto che l'intelligenza è virtù più rara dell'onestà?
Non è che forse il sentirsi male quando si è soli sia sintomo di scarso acume mentale?
Questo spiega anche la televisione.
Lo stordirsi di suoni ed immagini solo per evitare che il nostro cervello svolga la sua funzione: pensare.
Dio creò il mondo in sei giorni.
Ed il settimo giorno spense il telefonino e finalmente rimase solo.
O forse fece sesso
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